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Scrivere sull'acqua

Gabriel García Márquez e i Dodici racconti raminghi: perché scrivere è perdere, scartare, reinventare

Gabriel García Márquez è uno scrittore che non ha bisogno di presentazioni. Premio Nobel per la letteratura nel 1982, l'autore colombiano è stato tra le voci più emblematiche del realismo magico, nonché protagonista indiscusso del rilancio della letteratura latinoamericana e della sua diffusione nel mondo. Difficile, del resto, dimenticare titoli come Cent'anni di solitudine (1967), Cronaca di una morte annunciata (1981) e L'amore ai tempi del colera (1985), solo per citare le opere di maggior successo. Autore di undici romanzi, nella sua carriera García Márquez è stato però anche un prolifico scrittore di racconti, con oltre una cinquantina di testi.


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Tra questi, i Dodici racconti raminghi (1992) sono forse i più interessanti in relazione al modo di lavorare di Gabriel García Márquez come scrittore di narrativa breve. Fin dalla prima edizione stampata a Bogotá, infatti, l'autore inseriva una premessa illuminante. Dove, per spiegare perché proprio dodici testi, perché scritti nella forma di racconti e perché definiti "raminghi", apriva al pubblico le porte della propria (splendidamente caotica) officina di lavoro.


Oggi, a quasi trentaquattro anni di distanza da quel giorno di aprile a Cartagena de Indias, quando García Márquez metteva l'ultimo punto e la siglava, quella premessa ha ancora parecchio da insegnare. Sia a chi ha letto e amato il García Márquez dei romanzi maggiori, sia a chi ambisce a vivere di scrittura. Perché, stringendo all'osso, quel testo racconta un processo di scrittura pluridecennale fatto sì di guizzi di fantasia, ma anche di disdette, di bozze perse e del bisogno, a un certo punto, di ricominciare tutto daccapo.



Gabriel García Márquez
Gabriel García Márquez

"Perché dodici, perché racconti e perché raminghi": le infinite vie della scrittura secondo Gabriel García Márquez


Se non fosse evidente, chiarisco subito il mio posizionamento: a legarmi ai Dodici racconti raminghi di Gabriel García Márquez è una passione lunga, corroborata da numerosi viaggi in treno, giornate di pioggia, spiaggia, alture, serate pigre con un bicchiere di vino. Me lo porto dietro ormai da anni come un talismano, probabilmente anche a causa di quello che dice nelle prime undici righe. E cioè che, essenzialmente, nella scrittura non sempre è buona la prima. Anzi, a dire il vero non lo è quasi mai.



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L'osservazione potrebbe anche sembrare molto banale, se non fosse per i numeri. Dei dodici racconti, scritti con alterne vicende (vedremo tra pochissimo in che senso), l'autore ci informa che cinque prima erano sceneggiature e articoli di giornale e uno un progetto per un serial televisivo. Un altro ancora, poi, venne così, a braccio, durante un'intervista con un amico: quest'ultimo lo trascrisse e lo pubblicò, e da quella versione García Márquez poté riscrivere quella definitiva.


Ora, chi mastica un po' di scrittura lo sa, cambiare completamente forma a un progetto narrativo già scritto, o anche solo abbozzato, non è una faccenda semplice. Neanche per chi ha molta esperienza, neanche per chi scrive come professionista. Perdere il filo, scoraggiarsi, abbandonare del tutto l'impresa diventa più probabile a mano a mano che le settimane e i mesi passano. Senza una determinazione ferrea, prima o poi si molla il colpo. Specialmente se un tremendo imprevisto ci mette la coda.


Gabriel García Márquez
Gabriel García Márquez

Sessantaquattro racconti, più o meno raminghi


Prima, se ricordi, si parlava di numeri: sono proprio i numeri, come dicevo, a rendere così particolare il progetto letterario e la gestazione dei Dodici racconti raminghi. Anche perché, in principio, questi racconti non erano affatto dodici: erano ben sessantaquattro! A voler essere precisi, però, non si trattava di racconti veri e propri. Erano, più che altro, degli spunti narrativi, dei progetti, delle idee che, a partire dal 1970, dopo aver fatto un sogno bizzarro sul proprio funerale, Márquez aveva incominciato ad appuntare su un quadernino di scuola prestatogli dai suoi figli.


Dal 1970 al 1978, quel quadernino stette sulla scrivania coperta di carte dell'autore a Città del Messico, oppure nello zaino dei figli quando la famiglia era in viaggio. Macchiate e bistrattate, quelle pagine custodivano il segreto di un progetto letterario in evoluzione. Dapprima concepito come un romanzo, verso il 1974 il materiale nella testa di Márquez aveva già cambiato pelle: doveva essere una raccolta di racconti. E non una qualsiasi. Doveva essere, dice lo scrittore, «una raccolta di racconti brevi basati su fatti giornalistici ma redenti dalla loro condizione mortale grazie alle astuzie della poesia». Unità di genere, di stile, di tono e di respiro, per confezionare una lunga collana di perle narrative che s'imprimessero nella mente dei lettori.


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Tutto meraviglioso, in teoria. Peccato per un fatto: nel 1978, il quadernino andò irrimediabilmente perduto. Probabilmente, ammette lo scrittore guardandosi le punte dei piedi, per via di uno dei periodici pogrom di carta cui sottoponeva con ferocia la propria scrivania.


Come Gabriel García Márquez trasformò un clamoroso atto mancato in un capolavoro della forma breve


Ora, c'è da dire che del tutto accidentale, a ben guardare, la cosa proprio non fu. Perché, di fatto, Márquez non stava riuscendo a scrivere quei racconti. Aveva creduto di poterli scrivere di getto, ma dopo i primi due era esausto e al quarto ormai s'era completamente arenato. Nella Premessa ne rende ragione, regalandoci una piccola perla di critica letteraria:

Adesso so perché: lo sforzo di scrivere un racconto è tanto intenso quanto cominciare un romanzo. Perché nel primo paragrafo di un romanzo bisogna definire tutto: struttura, tono, stile, ritmo, lunghezza, e talvolta persino il carattere di qualche personaggio. Il resto è il piacere di scrivere, il più intimo e solitario che si possa immaginare, e se uno non rimane a correggere il libro per il resto della vita è perché lo stesso rigore di ferro di cui c'è bisogno per cominciarlo s'impone per finirlo. Il racconto, invece, non ha inizio né fine: viene o non viene. E se non viene, l'esperienza propria e quella altrui insegnano che quasi sempre è più salutare ricominciarlo per un'altra via, o buttarlo nella spazzatura.

Ecco, Gabriel García Márquez seguì il proprio consiglio alla lettera. Poi, però, entrò in gioco il suo onore di scrittore: non fosse altro che per puro puntiglio, quel progetto non poteva naufragare così.


I dodici racconti raminghi di Gabriel García Márquez
I Dodici racconti raminghi

Per prima cosa, lo scrittore si sforzò di ricordare. Lavorando intensamente, riuscì a ricostruire in dettaglio trentaquattro dei progetti originali. Poi fece tesoro dello sforzo, dice, lasciando che agisse da purgante: così, eliminò tutto quello che gli pareva insalvabile, fino a ridurre gli abbozzi narrativi a diciotto. Infine, si esercitò scrivendo per i giornali, per le televisioni e per il cinema, a stretto contatto con altri scrittori e creativi: sperimentò stili e registri diversi, mettendoli alla prova sul proprio materiale. Avendo cura, in questo, di non ripetere l'errore di esaurirsi sul progetto. Scrisse quando ne aveva il tempo, cominciando un racconto e mettendolo da parte quando si stancava, per cominciarne un altro e tornare al primo quando l'ispirazione ce lo riportava. Così, in circa un anno di lavoro, Márquez riuscì a individuare e completare i dodici racconti che davvero valeva la pena per lui scrivere e includere nella raccolta. Però non era ancora finita.


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Quel che mancava alla raccolta era un radicamento autentico nello spazio e nel tempo. I racconti, infatti, erano ambientati in città d'Europa come Roma, Parigi e Ginevra per come lo scrittore le aveva conosciute una ventina d'anni prima. Per dar loro il corpo che serviva, racconta Márquez, gli occorreva ritornarvi. Vedere come erano diventate. Non per essere esatto, no: per essere libero. Per scrivere senza domandarsi più dove finisse la vita e iniziasse l'immaginazione.

Un ultimo viaggio, dunque, e otto mesi di riscrittura febbrile e gioiosa, «per il puro piacere di narrare», servirono a Gabriel García Márquez per ultimare l'opera. Arrivando, per sua stessa ammissione, a scrivere il libro di racconti più vicino immaginabile a quello che avrebbe sempre voluto scrivere.


Conclusione: qualche spunto per chi scrive dalle peripezie dei Dodici racconti raminghi


La vicenda creativa dei Dodici racconti raminghi ha qualcosa da dire a chi fa (o vuol fare) della scrittura la propria vita. Qualcosa che va al di là dell'ovvio (ma non scontato) "abbi cura dei tuoi appunti e cerca di evitare che la tua scrivania sembri un girone infernale".


Nel raccontare di quanto il vizio di scrivere possa essere «insaziabile e corrosivo», ma in fondo anche avventuroso ed estremamente soddisfacente, Márquez mette a disposizione qualche indicazione che vale la pena portare con sé.


  • Annotare fatti, notizie, brandelli di conversazione, immagini può essere un buon modo per costruirsi un piccolo patrimonio di spunti narrativi per sviluppare un progetto originale.

  • Se qualcosa si perde e non c'è modo di ricostruirlo a mente, forse semplicemente quella non era la storia giusta.

  • Dosare le forze rispetto al progetto è essenziale: soprattutto nella forma breve, ci vogliono in egual misura rigore, costanza e libertà per arrivare a scrivere un testo che funzioni.

  • Selezionare e scartare è essenziale: una scrittura di qualità si distingue anche per ciò che ha il coraggio di buttare.


L'indicazione più interessante, però, resta una scelta di Márquez che si può eleggere a metodo di lavoro nel concepire, realizzare e rivedere una raccolta di racconti. Al racconto e all'insieme di cui fa parte, suggerisce lo scrittore, si dovrebbe pensare a un'impresa di pari respiro rispetto al romanzo, sia pure con tutte le specificità e con le difficoltà tecniche della forma breve. Il singolo testo e la raccolta funzionano tanto di più quanto più sono coesi nell'adottare uno sguardo complesso e prospettico sul luogo e sul tempo in cui sono ambientati. Senza scorciatoie e senza sconti di sorta.

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