Susan Abulhawa: vita, opere e metodo. Un’analisi critica attraverso Ogni mattina a Jenin
- InVece Team
- 21 set
- Tempo di lettura: 8 min
Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese-statunitense che ha coniugato la forma del romanzo storico con la testimonianza civile, costruendo una narrativa capace di attraversare più generazioni, più geografie e più registri linguistici. La sua traiettoria biografica — nascita in Kuwait nel 1970 da genitori rifugiati di Gerusalemme est, adolescenza e studi negli Stati Uniti, carriera scientifica prima dell’esordio letterario — è inseparabile dal suo progetto estetico e politico: raccontare l’esperienza palestinese come campo d’indagine storica e come lessico della sopravvivenza.
Susan Abulhawa è, al tempo stesso, autrice e attivista: fondatrice dell’organizzazione non-profit Playgrounds for Palestine (2001), nata per difendere il “Right to Play” e costruire aree gioco in Palestina e nei campi UNRWA in Libano e Siria; la sua attività pubblica e oratoria (fino al recente intervento all’Oxford Union) integra e amplifica i nuclei tematici dei romanzi.
In questa analisi assumo Ogni mattina a Jenin come strumento euristico: non solo un testo di successo globale, ma la “matrice” che, per struttura e temi, illumina anche il successivo The Blue Between Sky and Water e il più recente Against the Loveless World.

Profilo biografico essenziale (perché la biografia è una categoria dell’analisi)
Susan Abulhawa nasce nel 1970 a Kuwait City da genitori palestinesi originari di At-Tur (Monte degli Ulivi, Gerusalemme est), rifugiati dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. La sua infanzia è segnata da spostamenti continui fra Kuwait, Giordania, Gerusalemme e Stati Uniti; a 13 anni rientra negli USA, dove completerà studi in biologia (Pfeiffer University) e un master in neuroscienze/biomedical science (University of South Carolina School of Medicine), lavorando poi nella ricerca farmaceutica prima di dedicarsi alla scrittura. Questo innesto tra rigore scientifico e urgenza testimoniale spiega l’architettura “verificabile” dei suoi romanzi: contro-campioni, fonti, comparazioni.
Nel 2001 fonda Playgrounds for Palestine; il primo parco viene realizzato nel 2002. La scelta è programmatica: difendere un diritto infantile elementare nel cuore di una geografia della privazione.
Opere principali: una mappa ragionata
Ogni mattina a Jenin (Mornings in Jenin, riedizione Bloomsbury 2010; in Italia Feltrinelli, trad. Silvia Rota Sperti). È la riscrittura e ampliamento di The Scar of David (2006): un’epopea familiare dal 1948 ai primi Duemila, attraverso le vicissitudini degli Abulheja, fra Ein Hod, Jenin, Beirut e Stati Uniti. Il romanzo è tradotto in oltre 27–32 lingue e ha venduto oltre un milione di copie: è il “varco” che ha portato in mainstream anglofono la vita palestinese post-’48.
The Blue Between Sky and Water (2015, Bloomsbury): saga centrata su Gaza, articolata su tre generazioni femminili; pubblicato in 19 lingue.
Against the Loveless World (2020; ed. it. Contro un mondo senza amore, Feltrinelli 2020/2024): la storia di Nahr, narrata dalla reclusione nel “Cubo”, ha ricevuto riconoscimenti (Palestine Book Awards; finalista Aspen Words; Arab American Book Award).
My Voice Sought the Wind (poesia, 2013): taccuino lirico sui temi di amore, perdita e identità, utile a cogliere il registro più intimista della sua voce.
Perché Ogni mattina a Jenin è la chiave interpretativa
Susan Abulhawa e la genealogia del romanzo storico “di campo”
Ogni mattina a Jenin non è soltanto un racconto familiare: è una struttura cognitiva. Abulhawa organizza il romanzo come un laboratorio dove la storia collettiva (Nakba, campi, diaspora, guerre d’invasione e d’uscita) è filtrata da un punto di vista interno femminile (Amal) e da un dispositivo simbolico (il furto/adozione del bambino Ismael/David) che consente l’analisi incrociata di appartenenza, identità e trauma. La riedizione Bloomsbury del 2010, che ha portato il testo al grande pubblico anglofono, è stata accolta come un debutto “potente” e “senza freni” sulla sofferenza palestinese in 60 anni di occupazione.
Sul piano poetico, il romanzo coniuga:
Epos famigliare (durata lunga; genealogie; archivi affettivi)
Documentarismo diffuso (luoghi, date, fatti verificabili)
Lessico ibrido (l’inglese della narrazione che lascia filtrare ritmo, metafore e “danza” dell’arabo).
La critica ha notato la fusione fra convenzioni anglo-americane e venature della prosa araba contemporanea, un equilibrio che salva il libro dal rischio di pamphlet e restituisce spessore non tribale ai personaggi, ebrei e palestinesi, anche quando la materia è incendiaria.
Un romanzo “ponte” (tra Jenin e il mondo)
La vicenda corre da Ein Hod a Jenin, da Beirut a Gerusalemme fino agli Stati Uniti. L’itinerario geografico non è un semplice sfondo: è una grammatica del confine. Ogni passaggio di frontiera ridistribuisce potere, linguaggio, aspettative — e fornisce all’autrice la piattaforma per il suo tratto più caratteristico: la comparazione. Le figure maschili (Yousef, Hasan) e femminili (Dalia, Amal) non sono marche ideologiche, ma vettori di memoria: ciascuno incarna una diversa forma di risposta alla disarticolazione della patria.

Ricezione e controversie (che cosa rivelano sul testo)
La forza di Mornings in Jenin si misura anche dalle polemiche: dalla cancellazione di una lettura a New York nel 2007 alle accuse di “cliché anti-israeliani” (B.-H. Lévy) che l’autrice ha respinto nel merito. Che ci siano state contestazioni è parte della storia del libro e conferma una verità critica: i romanzi che spostano narrativa e percezione pubblica passano sempre attraverso “prove di stress” mediatizzate.
Struttura, focalizzazione, tempo: anatomia interna di Ogni mattina a Jenin
Il tempo lungo come «metodo»: dalla Nakba all’esilio
La dilatazione temporale (1948-2002) non è solo necessità storica: è una tecnica di confutazione. Allargando la scala, Abulhawa sottrae la narrazione alla “cronaca di giornata” e la ricollega alle conseguenze cumulative di eventi “fondatori” (espulsione, campi, guerre, diaspora). È un’operazione “storica” in senso stretto — la trama affonda costantemente in elementi riscontrabili — che produce un effetto di persuasione non propagandistica.
Focalizzazione interna e voce femminile
Amal, nucleo focale del romanzo, è un soggetto conoscente. Attraverso lei funziona l’educazione sentimentale al trauma e alla cura. La scelta di una voce femminile non è ornamentale: è un contro-campo rispetto alle narrazioni iper-maschili del conflitto e consente di tematizzare corpi, maternità, perdita e agency senza scivolare nel vittimismo.
Il dispositivo “doppio”: Ismael/David
La sottrazione del neonato e la sua crescita in famiglia israeliana (David) è un esperimento narrativo per intersecare linee genealogiche e morali. Il romanzo costruisce uno spazio dove l’empatia non annulla la responsabilità: l’“altro” non è un feticcio, è una biografia concreta, che può tornare ad incrociarsi con la propria in forme impreviste. È qui che la scrittura di Abulhawa mostra il suo gesto più radicale: spingere il lettore dentro la contraddizione etica senza semplificarla.
Dalla “matrice Jenin” agli altri romanzi: continuità e svolte
Gaza e la lingua delle donne in The Blue Between Sky and Water
Il secondo romanzo amplia la tesi: Gaza come laboratorio della resistenza quotidiana e della trasmissione femminile del sapere. L’attenzione al corpo sociale delle donne e alla memoria intergenerazionale produce una plasticità di registri (realismo, lirismo, momenti di visionarietà) che rinvia alla tradizione araba e latino-americana del real maravilloso. Sul piano editoriale, il dato delle 19 lingue vendute prima dell’uscita inglese è un indicatore dell’aspettativa sistemica verso la sua voce.

Nahr nel “Cubo”: Against the Loveless World come romanzo carcerario e politico
Con Nahr, narratrice reclusa in una cella-dispositivo (“il Cubo”), Abulhawa condensa la riflessione su genere, patriarcato, sorveglianza e colonialità. La forma carceraria impone un paradigma di memoria forzata: il racconto procede per flashback controllati, dove l’identità diasporica si muove tra Kuwait, Giordania e Palestina, “codificando” una soggettività che ricerca spazi terzi tra diaspora ed esilio. Il romanzo è stato premiato e finalista a più riconoscimenti internazionali (Palestine Book Awards Winner; Aspen Words Finalist; Arab American Book Award), segno che l’impatto letterario travalica il tema.
La lingua e i registri: tra code-switching, oratura e comparazione
Una parte della forza stilistica di Abulhawa sta nel suo bilinguismo interiore. L’inglese veicola la trama globale; l’arabo (come ritmo, immagine, sintassi “ospite”) tesse un controcanto che agisce sul piano simbolico ed emotivo. La critica accademica ha iniziato a mappare questo fenomeno, studiando code-switching e identità diasporica nella sua opera: segni linguistici che non sono esotismi, ma tracce di resistenza culturale.
Nel dispositivo di Abulhawa, elementi di oratura (formule, riprese, epiteti, micro-cadenze proverbiali) convivono con l’inquadratura documentale (date, luoghi, eventi). Il risultato è una prosa porosa: accogliente con il lettore generalista, ma densamente citabile per lo studioso.
Le pratiche pubbliche: festival, interventi, dibattiti
Oltre ai romanzi, Abulhawa è una public intellectual: dai playgrounds alle arene del dibattito internazionale. Nel 2024 ha difeso la mozione all’Oxford Union secondo cui Israele sarebbe uno Stato d’apartheid responsabile di genocidio — episodio che segnala il suo posizionamento polemico e il ruolo di “voce” palestinese in sedi simboliche occidentali. La presenza pubblica dell’autrice, con il suo corredo di consensi e contestazioni, non è un “fuori testo”: retroagisce sull’interpretazione della sua opera narrativa.
Una lettura ravvicinata: tre nodi di Ogni mattina a Jenin
Susan Abulhawa e il nodo genealogico: famiglia come archivio vivente
La famiglia Abulheja funziona come istituzione della memoria. Nel romanzo, l’“archivio” non è solo documenti: è corpo, cicatrici, racconti tramandati. La genealogia, lungi dall’essere un topos nostalgico, è la contro-infrastruttura che resiste alla cancellazione. Questo spiega perché i legami fra fratelli e sorelle — e, di riflesso, la frattura Ismael/David — hanno un peso quasi costituzionale: definiscono chi è legittimato a dire “noi”.
Il nodo dello sguardo: empatia senza assoluzione
Abulhawa pratica una empatia selettiva: allarga il campo emotivo ai personaggi israeliani senza per questo appiattire le asimmetrie materiali. È un equilibrio sottile, che la critica ha riconosciuto come antidoto al tribale.
Il nodo della lingua: quando l’arabo “danza” nell’inglese
La prosa alterna registri; alcuni passaggi, nella versione inglese, “suonano” come traduzioni interne dall’arabo (immagini, parallelismi, ritmo). È qui che la resa italiana di Feltrinelli va letta come mediazione culturale oltre che linguistica (trad. Silvia Rota Sperti; edizioni 2011 e 2013 UE).
Confronto con The Blue Between Sky and Water e Against the Loveless World
Se Jenin è romanzo della diaspora, Blue è romanzo dell’assedio (Gaza): la storia è compressa, i margini sono più stretti, la forza centripeta della Striscia rende la lingua più visionaria. Against the Loveless World opera la torsione carceraria: dalla Storia collettiva alla soggettività reclusa che re-ordina il proprio passato in un cubo di cemento. In tutti e tre i casi, il femminile non è “tema”: è metodo narrativo (focalizzazioni, economie della cura, erotica della resistenza).
Sul versante teorico, studi recenti interrogano le sue figure diasporiche con categorie come third space ed exilic consciousness, mostrando come la scrittura costruisca spazi di mezzo in cui identità e appartenenza si riconfigurano.
Ricezione critica e sistema letterario
La stampa di settore ha registrato per Mornings in Jenin giudizi di forte impatto (Kirkus: “audacious… potent”) e, per Against the Loveless World, lodi che ne sottolineano la necessità politica e la qualità stilistica (NYT; premi e shortlist). Questi riscontri, accompagnati da ampie traduzioni, hanno reso Abulhawa una delle autrici palestinesi più lette a livello globale.
Una nota sull’attivismo: come “entra” nei romanzi
Il suo attivismo (Playgrounds for Palestine, campagne pubbliche, festival) fornisce un orizzonte pragmatico: i romanzi non sono sermoni, ma racconti ancorati a pratiche (cura dei bambini, socialità nei campi, reti di sostegno). È la continuità tra gesti e parole a rendere la sua opera riconoscibile.

Conclusioni operative: perché leggere Ogni mattina a Jenin oggi
Susan Abulhawa costruisce un romanzo-strumento: utile allo studioso (per la densità storica), al lettore comune (per la presa emotiva) e al giornalista (per la scala temporale e la prospettiva non-tribale). Ogni mattina a Jenin è un manuale di focalizzazione responsabile: invita a vedere il conflitto oltre la frammentazione algoritmica, a collocare le biografie dentro le strutture, a preservare l’umano anche quando l’umano è sotto assedio. È, in definitiva, un libro che educa al tempo lungo, che è la prima condizione della comprensione.
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