Il denaro è tutto, il denaro non è niente: su “maxi-rissa. I diari della trap” di Alberto Piccinini e Giovanni Robertini
- InVece Team

- 25 set
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 22 ott

I diari della trap: Per capire la trap è necessario, innanzitutto, chiedere. Chiedere a chi la fa, chiedere a chi la ascolta, chiedere a chi ne conosce la genesi. Affrontare il genere considerandolo esclusivamente un fenomeno mainstream – e dunque un prodotto catapultato da chissà dove al vertice delle chart – vuol dire non comprenderlo, e, da qui, farne una fenomenologia parziale per poi spiegarlo, finendo per assottigliarlo al punto da farlo passare in una fibra ottica risputato dal «retequattrismo». Un termine, che è in realtà uno spazio sociologico, utilizzato da Alberto Piccinini e Giovanni Robertini, autori di Maxi-rissa. I diari della trap (nottetempo, 2025) nel loro viaggio attraverso il mondo e i protagonisti di una musica culturalmente molto più rappresentativa e dirimente di quanto non si pensi. Piccinini e Robertini, giornalisti, scrittori e autori accomunati da una florida collaborazione nel contesto di Rolling Stone, entrano nei nostri parossismi quotidiani usando «la trap per avere la temperatura di ciò che accade nel mondo, meglio se politica, economia, destini dell’umanità. E viceversa».
Grazie a Maxi-rissa finiamo a casa di Baby gang, entriamo nelle carceri minorili con la testimonianza di Simba La Rue, comprendiamo il valore sociale della musica attraverso le parole di Paky. Storie di ragazzi che flexano tanto il proprio disagio quanto i successi e condannano il sistema per creare un codice alternativo in cui i giovani provenienti da «dove si sogna poco» possano riconoscersi, diventando – come spiega Paky - «la loro voce, perché loro una voce non ce l’hanno». Allora, leggendo, mettiamo in discussione l’idea di una trap meramente individualista, e non è poco, imbevuti di analisi di terze parti come siamo. Abbiamo bisogno di attingere alla fonte diretta, ascoltando i testi e la grinta onnivora che emanano. Ne abbiamo bisogno anche per contestualizzare una frase come quella di Sfera Ebbasta, faraone e nume tutelare del genere, in risposta alla madre che gli chiede quanti soldi ha speso in un mese: «Ma ‘sti cazzi, no che non lo so». È affascinante assistere allo svuotamento del valore, nominale e non solo, del denaro nella sua moltiplicazione esponenziale. Siamo davanti a un atto che, nella sua paradossalità, lambisce l’anticapitalismo. La trap, così, è una finestra – anzi, un’enorme parete a vetri contro cui sbattiamo il naso ogni giorno –, un «iperoggetto» in grado «di svelare ogni segreto del neocapitalismo tecno-feudale in cui siamo precipitati con tutte le scarpe perché racconta storie di luoghi dove non ci sono altre regole né leggi, se non quelle che si ricavano dall’uso della strada e dalle consuetudini mafiose».
Maxi-rissa ha diverse sottotrame argomentative, e una di queste ci fa indossare direttamente gli occhi dei musicisti. Emergendo a più riprese dalla lettura, si può dire che il trapper è il vero artista, nel quale c’è identità tra vita vissuta e rappresentazione, una rarità nell’era delle canzoni da autogrill. C’è, tuttavia, un rapporto peculiare e biunivoco tra questi due binari, il secondo non è solo una trasposizione del primo. La dedizione all’arte, all’esibizione è così consustanziale da sovrapporli. Ce lo spiegano bene i due autori: «Non c’è un cinema trap perché la trap stessa è cinema, finzione, con una sceneggiatura che entra direttamente nelle vite di chi rappa». Se ci pensiamo anche la politica italiana della Seconda Repubblica non è altro che questo, una rap battle dove contano la performance e il dissing, con Berlusconi «primo trapper d’Italia, “Meno tasse per tutti la sua hit più famosa”». Paradossalmente (ancora) consequenziale, allora, l’endorsement di Baby Gang per il Cavaliere in vista delle ultime elezioni.
Che cos’ha Baby Gang in comune con Berlusconi, se non tutto e niente? Tutto, quando dice che non riesce «a dormire, fino alle cinque […] perché a quell’ora arrivano i mandati di arresto». Niente, perché Baby Gang, all’anagrafe Zaccaria Mouhib, fa parte di quei ragazzi e di quelle ragazze che gridano «io vivo qui, parlo come te, lavoro per te, studio e faccio la spesa con te, e tu non solo non mi dai la cittadinanza italiana, ma negandomela mi ghettizzi e mi rendi invisibile. Da qui il vaffanculo all’Italia. E la voglia di fare trap, che di quel vaffanculo si fa insieme ambasciatore ed esercito». Di sicuro, i trapper sono più profondamente accomunati nello spirito a Pasolini e ai suoi personaggi, se è vero che il «protagonista di Accattone è un pimp con le sue bitches che ama le collane e gli anelli d’oro, le belle macchine e le ragazze», nella convinzione che «lavorare per vivere sia una punizione insopportabile».
Maxi-rissa. I diari della trap si muove come una serie di abbagli e scosse nel tessuto del nostro bestiario collettivo che non risparmia nemmeno il lettore. È un viaggio ai margini e al centro, in un “attraverso” popolato di un’energia a tratti incomprensibile che si è “rubata” la scena come esaltazione e condanna di un turboconsumismo (economico, affettivo, ideologico) che non esisterebbe se non fosse fine a sé stesso; una falla fisheriana che svela le contraddizioni del capitalismo contribuendo al tempo stesso ad alimentarlo. Quella della trap è una parola «contundente. Parola clava» che si esaurisce nel geste, come «una performance ginnica», ed è «capace di fluttuare come una nuvola di senso nella plasticità metrica della sua materialità significante». Questa parola, al pari di tutte le risse, ha una genetica e si è fatta tutti questi muscoli al di là della siepe del mondo emerso: è lì che Robertini e Piccinini sono andati con la torcia sull’elmetto ed è lì che vi porteranno.
Pierfrancesco Trocchi






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