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Walter Benjamin: l’intellettuale che capì il Novecento (mentre il Novecento lo schiacciava)

Walter Benjamin, un secolo storto e un uomo fuori posto


Walter Benjamin nasce a Berlino nel 1892, in una famiglia ebraica borghese, abbastanza agiata da permettergli studi seri e abbastanza miope da non capire in che abisso stava scivolando l’Europa. Filosofo, critico letterario, teorico dei media prima ancora che la parola “media” diventasse di moda, è uno di quelli che non trovano mai la casella giusta: troppo marxista per i teologi, troppo teologo per i marxisti, troppo originale per l’accademia, troppo serio per la propaganda.


Walter Benjamin

La sua traiettoria è quella dell’intellettuale europeo del Novecento che non ha nessuna voglia di diventare “coscienza della nazione”, ma finisce ugualmente schiacciato dalla storia: guerra, esilio, fascismo, carte di identità che scadono, visti che non arrivano mai. Nel 1940, mentre fugge dai nazisti con una valigia piena di dattiloscritti e una scorta di morfina “per sicurezza”, verrà fermato a Portbou, alla frontiera spagnola: il giorno dopo lo rimandano indietro, verso la Gestapo. Lui sceglie di non arrivarci: si uccide in un albergo anonimo, lasciando un manoscritto “più importante di me”, di cui non sapremo mai con certezza il contenuto.


La grande ironia è che, da vivo, Benjamin faticava a farsi pubblicare; da morto, è diventato la bandierina che sventola su metà delle facoltà di filosofia e di studi culturali del pianeta. Come se il Novecento avesse avuto bisogno prima di farlo fuori, e solo dopo di riconoscere che aveva ragione lui.


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Walter Benjamin e l’arte: l’aura, Hollywood e il populismo culturale


“L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”


Walter Benjamin

Se c’è un testo che ha trasformato il cognome Benjamin in parola chiave obbligatoria di ogni corso di teoria dei media, è L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935–36). In questo saggio, scritto in esilio a Parigi e pubblicato in francese dalla rivista della Scuola di Francoforte, Benjamin capisce una cosa che Hollywood e Netflix avrebbero impiegato decenni a mettere a fuoco: quando un’opera può essere riprodotta all’infinito, la sua “aura” – quell’unicità rituale, la distanza reverenziale – evapora.


Fin qui, sembra il solito lamento da critico snob: “una volta c’era il quadro originale, ora le cartoline”. Invece Benjamin fa una torsione politica. Dice: attenzione, non è solo perdita. La scomparsa dell’aura può avere un potenziale emancipativo. Un film proiettato ovunque toglie alla cultura il monopolio dei salotti buoni e delle chiese; rende possibile una fruizione di massa che, in teoria, può diventare anche coscienza di massa. L’arte, strappata al culto, viene politicizzata.


Il problema, per lui, non è che le masse guardino il cinema; è che il fascismo estetizzi la politica – parate, coreografie, spettacolo – mentre il compito del socialismo sarebbe politicizzare l’arte. La domanda sottotraccia è brutale: chi userà meglio la nuova tecnologia, il dittatore o chi vuole rovesciarlo?

Nota: Oggi l’aura non ce l’hanno più le opere, ma i leader: inquadrature studiate, selfie con il cane, stories dal Viminale. Lì la riproducibilità non distrugge l’aura, la moltiplica: più sei ovunque, più sembri unico. Walter Benjamin, su queste cose, ci sarebbe arrivato in un lampo: il problema non è la tecnologia in sé, ma la mano che la usa e il potere che ci infila dentro.

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Le ultime opere: un flâneur braccato dalla Storia


“Il progetto dei Passages” e le “Tesi sul concetto di storia”


Negli anni Trenta, mentre l’Europa si prepara al disastro, Walter Benjamin lavora contemporaneamente a due opere che sembrano lontanissime e invece sono la stessa cosa vista da due angolazioni.


Da una parte c’è il “Passagen-Werk”, il Libro dei Passages: un mostro di appunti, citazioni, schede, frammenti sul XIX secolo e sulle gallerie coperte di Parigi, quelle specie di centri commerciali ante litteram dove il capitale mette in vetrina le sue merci e i suoi sogni. Benjamin li attraversa come un detective della modernità: legge le insegne, le mode, la merce come sintomi di qualcosa di molto più profondo. Il libro non lo finirà mai: uscirà postumo, e diventerà la Bibbia di chiunque voglia parlare di città, consumo e spettacolo con tono profetico.


angelo della storia

Dall’altra parte, nel 1940, scrive le Tesi sul concetto di storia (“Sul concetto di storia” o “Tesi di filosofia della storia”), il suo testamento teorico. Qui la modernità smette di essere vetrina e torna campo di battaglia: niente progresso lineare, niente tempo omogeneo e vuoto. La storia, dice Benjamin, vista dal punto di vista dei vinti, è un’unica catastrofe: il famoso angelo della storia che guarda indietro e vede solo rovine, mentre una tempesta che chiamiamo “progresso” lo spinge verso il futuro.


In queste pagine, scritte mentre prepara la fuga da Parigi, c’è la lucidità di chi sa di avere perso, ma si rifiuta di consegnare la memoria dei perdenti alla versione ufficiale dei vincitori. È una filosofia della storia che odia le commemorazioni ipocrite e i cortei della Domenica con la fascia tricolore. Qui l’eco è fin troppo chiara: non esiste documento di civiltà che non sia insieme documento di barbarie, scrive Walter Benjamin. Se vuoi capire un monumento, non fermarti al bronzo: guarda chi l’ha pagato, chi non compare sulla statua, chi è stato espulso dalle iscrizioni e dalla memoria ufficiale.


Walter Benjamin e i suoi contemporanei: Adorno, Brecht, Scholem & co.


Un intellettuale tra tre fuochi


Se la vita di Benjamin è complicata, le sue amicizie lo sono ancora di più. Si muove tra tre poli che non si sopportano granché:


  • Theodor W. Adorno e la Scuola di Francoforte, che lo aiutano economicamente, lo pubblicano, ma lo trattano sempre un po’ come il genio irregolare da “correggere” e riportare all’ordine del materialismo critico.

  • Bertolt Brecht, il drammaturgo comunista che Benjamin va a trovare in Danimarca: con lui condivide l’ossessione per il teatro, il cinema, la propaganda; Brecht lo spinge verso un marxismo più secco, più militante, e sospetta delle sue derive teologiche.

  • Gershom Scholem, l’amico sionista, studioso di mistica ebraica, che vede in Benjamin soprattutto il pensatore messianico, l’esegeta di Kafka, e non sopporta la sua fascinazione per Marx.


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A seconda di chi parla, Walter Benjamin è o un marxista che si traveste da teologo o un teologo che gioca a fare il marxista. Scholem parlerà di autoinganno: per lui, le “Tesi” sono un ritorno alla teologia e un addio al materialismo storico. Adorno invece insiste sul Benjamin critico della cultura di massa, ma non gli perdona l’entusiasmo per Brecht, che arriva a definire “marxista volgare”.


La differenza è anche di stile. Adorno è il sistematico, il professore che costruisce il grande edificio teorico; Brecht è il dramaturg, lo stratega di scena, che vuole slogan efficaci e messaggi chiari. Benjamin è il flâneur che raccoglie cocci, insegne, pubblicità, sogni, e ci costruisce costellazioni di senso. Laddove gli altri cercano coerenza, lui cerca immagini: l’angelo, la merce, il collezionista, il giocattolo, il passante.


Walter Benjamin

Mentre i colleghi finiscono (quasi tutti) al sicuro in America, Benjamin resta sempre un po’ ai margini, sospeso tra borse di studio precarissime e case d’amici. Saranno Adorno e Horkheimer, dopo la guerra, a prendersi cura della sua eredità, pubblicando testi come “Illuminations”, curato da Hannah Arendt, che lo canonizzerà come uno dei grandi pensatori del secolo.


Walter Benjamin oggi: influencer suo malgrado


Walter Benjamin oggi è citato ovunque: sociologia, studi di cinema, teoria dei media, storia dell’arte, marketing culturale. Ogni volta che qualcuno pronuncia la parola “aura” davanti a una foto Instagram, anche senza saperlo, sta giocando con le sue categorie.


Il paradosso è che Benjamin aveva già previsto la versione primitiva di tutto questo: la fotografia, il cinema, il consumo come spettacolo, il centro commerciale come tempio. Se lo catapultassimo nel 2025, probabilmente guarderebbe TikTok due minuti in silenzio e poi direbbe: sì, è sempre la stessa storia – solo che adesso la merce ha imparato a ballare.


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Walter Benjamin, nel frattempo, è diventato lui stesso una specie di brand accademico: convegni, summer school, gadget nei bookshop. Gli stessi meccanismi di riproducibilità che lui analizzava hanno trasformato la sua figura in icona – rischio che lui avrebbe visto benissimo. La sua fortuna postuma dimostra un’altra delle sue intuizioni: è la posterità, non l’autore, che decide se un’opera è “classica”.


In conclusione


In mezzo a un’epoca che si raccontava come trionfo della ragione, crescita, sviluppo, Walter Benjamin è la nota stonata che ricorda il prezzo del biglietto: genocidi, dittature, deportazioni, corpi buttati nei fossi delle frontiere. Non aveva la retorica roboante di un ideologo né l’autorità di un rettore: aveva solo una penna, una lucidità feroce e una vita di sconfitte.


È proprio da lì che viene la sua attualità. In un mondo che si vende continuamente come “nuovo”, “smart”, “innovativo”, Benjamin ci obbliga a fare l’unica domanda scomoda: nuovo per chi, e pagato da chi? L’opera d’arte, la politica, la tecnologia, la storia: niente è innocente, niente è gratuito.

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