Maurizio De Giovanni
- InVece Team

- 3 giorni fa
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Napoli, la colpa e la grazia

Maurizio De Giovanni non scrive gialli: scrive processi morali. È l’autore che ha trasformato il romanzo di genere in una confessione collettiva, quella di una città che da secoli alterna peccato e redenzione come due stagioni che non si distinguono più. Nato a Napoli nel 1958, De Giovanni arriva tardi alla letteratura — quarantasette anni e un concorso per scrittori esordienti al caffè Gambrinus nel 2005 — ma da allora non si è più fermato. Da quel racconto, I vivi e i morti, nasce il commissario Ricciardi, creatura malinconica e soprannaturale che sente le voci dei defunti. E con lui, un laboratorio narrativo che nel tempo diventerà una costellazione: I Bastardi di Pizzofalcone, Sara, Mina Settembre, Volver e oggi L’orologiaio di Brest.
Dietro l’etichetta di “scrittore di successo” — un milione e mezzo di copie vendute, traduzioni, fiction Rai — si nasconde in realtà un autore ossessionato dalla giustizia: quella vera, non quella codificata nei tribunali. Il suo è un lavoro da entomologo delle coscienze: scava nei residui, nei silenzi, nella parte d’ombra che ogni personaggio tenta di rimuovere. E Napoli, più che ambientazione, diventa organismo narrante: la città che ti perdona e ti inchioda nello stesso respiro.
“Volver” e “L’orologiaio di Brest”: due stazioni della stessa condanna
Il primo, Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi (Einaudi, 2024), segna il ritorno del suo personaggio più amato. Siamo nel 1940, alle soglie del baratro. L’Italia fascista si prepara alla guerra e Ricciardi, ormai sposato con Enrica, vive il conflitto tra il dovere e la paura di perdere tutto. De Giovanni costruisce un intreccio duplice: un caso irrisolto del 1906 e un presente soffocato dall’aria del regime. Ma il vero tema non è l’assassinio: è la memoria. La Storia — con la “S” maiuscola — diventa una testimone ostile. Ogni personaggio vive sotto giuramento, e l’autore non concede sconti né alla società né ai suoi eroi. È, letteralmente, un romanzo sul peso del ricordare.
Con L’orologiaio di Brest (Feltrinelli, 2025), De Giovanni esce dalla serialità e si misura con un romanzo totale. Il tempo, qui, è materia d’accusa. Non c’è più il filtro dell’investigatore, ma una riflessione diretta sul legame tra colpa e innocenza, sul destino che ritorna come un ticchettio ineluttabile. L’orologiaio del titolo diventa metafora della memoria: un artigiano che tenta di aggiustare ciò che il tempo ha distrutto. Sullo sfondo, ancora una volta, l’idea che la giustizia umana non basti mai — e che serva una forma di pietà più feroce, quella che ti costringe a guardare le tue stesse mani.
Camilleri e Maurizio De Giovanni: due Sud, due morali
Confrontare De Giovanni a Camilleri è inevitabile, ma serve farlo sul serio. Entrambi raccontano il Sud come un teatro di contraddizioni. Entrambi hanno creato un lessico, un mondo, una geografia morale. Ma le differenze sono abissali.
Camilleri scrive da osservatore ironico, quasi un antropologo del vizio italiano. La Sicilia di Vigàta è laboratorio linguistico e morale: un luogo dove il delitto è spesso un pretesto per analizzare la burocrazia del potere e la lentezza della giustizia. Montalbano, dietro la sua ironia, è un uomo che dubita, che media, che si arrende al compromesso quando la legge diventa disumana.
De Giovanni, invece, è un credente laico. La sua giustizia non ammette scorciatoie. Ricciardi non media, non perdona, non accetta la menzogna come strumento di pace. La sua Napoli è un purgatorio a cielo aperto, dove i vivi parlano coi morti perché i vivi non sanno più ascoltarsi. Camilleri costruisce il linguaggio per addolcire la verità; De Giovanni lo usa per ferirla, per aprire la pelle della realtà. Il primo inventa il “vigatese” — dialetto come identità; il secondo conserva l’italiano, ma lo fa vibrare di napoletanità: lo carica di ritmi, omissioni, sospiri, senza mai renderlo folklorico.

In comune, i due autori hanno un principio etico: non trattare mai il popolo come massa stupida. Camilleri, figlio di insegnanti e regista Rai, cercava di educare al dubbio; De Giovanni, ex impiegato di banca, educa alla memoria. Il primo ti spingeva a non fidarti dei potenti; il secondo ti spinge a non dimenticare chi sei.
La lingua, il tempo, la colpa
Camilleri ha riscritto la lingua italiana dal basso. De Giovanni la usa come specchio morale. In Volver e L’orologiaio di Brest la sintassi è musicale, precisa, mai leziosa. Nessuna ironia di comodo, nessun manierismo dialettale.Il linguaggio è lo strumento di un processo interiore: ogni parola pesa, come una testimonianza resa sotto giuramento.
Il tempo, nei due romanzi, è sempre il vero assassino. In Volver è la storia che uccide — il fascismo, la paura, la memoria. In L’orologiaio è il destino che si compie, e la scrittura diventa un modo per misurare il battito dell’anima. De Giovanni, come Camilleri, crede che la giustizia non sia nelle aule dei tribunali ma nella coscienza dei lettori. Solo che lui, a differenza del Maestro siciliano, non si concede l’ironia: preferisce la pietà che punisce, quella che ti salva solo dopo averti fatto confessare.
Dalla pagina allo schermo
A differenza di tanti scrittori di noir italiani, De Giovanni è riuscito a tradurre la sua voce anche fuori dai libri. Le serie televisive tratte dalle sue opere (I Bastardi di Pizzofalcone, Mina Settembre, Il Commissario Ricciardi) hanno avuto un successo popolare raro, ma senza mai cedere all’oleografia. Non è marketing, è coerenza: lo scrittore controlla il tono, i dialoghi, la costruzione dei personaggi. E difende il suo mondo con la stessa disciplina con cui Ricciardi difende i suoi morti.
Camilleri fece lo stesso: supervisionava Montalbano, controllava i copioni, sceglieva le pause linguistiche. Entrambi hanno compreso che la televisione, se governata, può amplificare la letteratura. Se lasciata in mano ad altri, la uccide.
Due eredità possibili
Camilleri ha lasciato in eredità la lingua e la misura. De Giovanni lascia la memoria e il senso di colpa.Entrambi hanno fatto del giallo uno strumento di analisi civile, non di intrattenimento. Ma mentre Camilleri guardava l’Italia con l’ironia del vecchio maestro, De Giovanni la osserva con la severità di un testimone.Il suo commissario Ricciardi non ride mai, non fa battute, non cerca complicità col lettore. È un uomo che ascolta la morte per ricordare ai vivi che la vita è una responsabilità.
Ecco la vera distanza tra i due autori: Camilleri era un illuminista travestito da narratore popolare; De Giovanni è un moralista tragico travestito da autore di bestseller. Uno scriveva per smascherare l’ipocrisia; l’altro per espiare il dolore. Sono le due facce della stessa medaglia: la letteratura come resistenza.
Un Sud che non chiede perdono
Oggi, in un’Italia dove la narrativa di consumo domina gli scaffali, De Giovanni continua a scrivere con la voce di chi ha visto troppo e perdonato poco. Il suo Sud non è la cartolina luminosa delle fiction, ma una mappa di ferite. E in questo, il suo lavoro continua l’opera di Camilleri: entrambi hanno tolto il Sud dal mito e l’hanno restituito alla realtà. Solo che De Giovanni lo fa con meno indulgenza, con la rabbia di chi sa che la giustizia, nel Paese dei compromessi, non è mai arrivata davvero.
Conclusione: la testimonianza e la pena
Se Camilleri è stato il maestro dell’empatia, De Giovanni è il custode della memoria.La loro differenza non è solo stilistica: è spirituale. Camilleri sapeva ridere del male; De Giovanni lo prende sul serio.In un tempo in cui tutto diventa intrattenimento, la sua ostinazione nel raccontare la colpa come parte dell’amore lo rende l’ultimo moralista civile della narrativa italiana.







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